PER UNA GIUSTIZIA SENZA CONFUSIONE DI RUOLI, CHE SI CONCENTRI SULLA SUA FUNZIONE DI GARANZIA DELL’EVOLUZIONE CIVILE ED ECONOMICA DEL PAESE
di Cesare Galli, Daniela Mainini, Gabriele Albertini
Le criticità della giustizia e la loro influenza negativa sulla competitività dell’Italia
La più recente edizione dell’Index of Economic Freedom (2019) assegna all’Italia un punteggio di judicial effectiveness del 49,8%, contro una media europea (comprensiva anche dei Paesi extra-UE) di 56,6%, in calo rispetto all’anno precedente, segnalando che nel nostro Paese non solo “court procedures are notoriously slow”, ma che più in generale “The legal system is cumbersome and vulnerable to political interference”. Il dato è ancora più drammatico se viene comparato con quello degli altri Paesi UE con i sistemi economici più direttamente in competizione col nostro: la Germania ha un indice del 75,4%, più di 25 punti superiore al nostro; i Paesi Bassi del 74,7%; la Francia del 66,1%. Numeri analoghi emergono dall’International Property Rights Index e da altri osservatori indipendenti, che mettono in luce come questa situazione disincentivi gli investimenti nel nostro Paese e lo penalizzi gravemente rispetto ai suoi competitors sul mercato globale.
Questi dati, tuttavia, non sono omogenei: sedi giudiziarie come Milano e Torino, pur avendo un carico di lavoro più pesante e organici proporzionalmente più ridotti, sia a livello di giudici che (e ancora di più) di personale di supporto, di altre ed in primis di Roma e di Napoli, hanno già oggi raggiunto e superato gli standard europei nella durata dei processi e nella prevedibilità delle decisioni, tanto in sede civile che penale. Addirittura, la giustizia italiana è considerata tra le più efficienti d’Europa nella tutela dei diritti di proprietà intellettuale (in particolare marchi, brevetti e design), con misure d’urgenza concesse in tempi brevissimi e risarcimenti commisurati alle reali conseguenze dell’attività contraffattoria, grazie ad interventi legislativi calibrarti sulle reali esigenze delle imprese e in particolare all’istituzione di apposite Sezioni specializzate in cui è stata concentrata la competenza a conoscere di questa materia.
Dunque, un cambiamento reale è possibile, ma deve necessariamente passare per l’identificazione delle criticità e, soprattutto, per l’adozione di rimedi effettivi e non di palliativi o di misure addirittura tali da peggiorare la situazione esistente, come la recentissima riforma della prescrizione, che non solo è contraria al precetto costituzionale che impone una giusta durata del processo ed è tale da disincentivare ulteriormente la rapida definizione dei contenziosi penali, ma si configura come una vera e propria regressione giuridica e umana, se si pensa che essa opera anche nell’ipotesi di sentenza di assoluzione di primo grado e non solo di condanna, facendo quindi prevalere una vera ossessione punitiva sulle garanzie di difesa dei cittadini, in spregio dei principî basilari dello Stato di Diritto.
Il rapporto distorto tra Magistratura e Politica e i gravi problemi della giustizia penale
Il primo snodo da affrontare è certamente rappresentato dal rapporto tra Magistratura e Politica, che in Italia è stato, negli ultimi venticinque anni, anomalo e talvolta patologico: nel nostro Paese, infatti, in alcuni casi la Giustizia non si è limitata a colmare vuoti normativi, o a chiarirne le incertezze (come è giusto e doveroso che faccia), ma ha interferito nei due momenti più significativi della dialettica democratica, l’elezione dei rappresentanti del popolo e la formazione delle leggi.
L’ubriacatura giustizialista che ne è seguita nel Paese a tratti ha avvilito i più elementari diritti civili. Basti pensare alle centinaia di persone incarcerate e assolte, e a quelle ancor più numerose delegittimate da una sapiente divulgazione di intercettazioni e di atti teoricamente coperti dal segreto e dall’uso anomalo dell’informazione di garanzia, che da atto dovuto, finalizzato a tutelare le prerogative difensive dell’indagato, si è più volte trasformato in condanna anticipata, o comunque in uno strumento di ibernazione del destinatario, al quale viene chiesto il famoso “passo di lato”.
In tal senso l’art. 68 della Costituzione nella sua versione originaria, che prevedeva l’autorizzazione a procedere, anche in sede d’indagini, non solo per le azioni lesive delle libertà personali (arresto,perquisizioni, intercettazioni) e di rinvio a giudizio, per i membri dei corpi legislativi, costituiva un naturale argine all’assoluta indipendenza dell’ordine giudiziario dal potere politico, voluta dai padri costituenti, che non ha eguali, per completezza, intensità, estensione, in nessun impianto costituzionale delle democrazie europee. É stato l’aver fortemente indebolito questo argine che ha prodotto la trasformazione de facto dell’ordine giudiziario – contro la stessa volontà della grande maggioranza dei suoi componenti, che continuano a operare con impegno e abnegazione in condizioni molto spesso oggettivamente ardue per chiunque – in un potere onnipotente ed irresponsabile, con le sciagurate conseguenze d’aver alterato, nel tempo, con effetti sempre più marcati ed irreversibili, la legislazione ed il governo con connotati fortemente giustizialisti.
Ciò è stato reso possibile anzitutto dalla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che contraddice i fondamenti stessi del processo accusatorio anglosassone, cui le riforme di questi anni avrebbero voluto ispirarsi e che invece si regge su alcuni solidi principî non adottati da noi, come la divisione delle carriere, la distinzione tra giudice del fatto e del diritto e, più importante di tutti, la discrezionalità dell’azione penale. Una discrezionalità tuttavia vincolata a criteri oggettivi, che il “District Attorney” è tenuto a rispettare in base al concreto allarme sociale suscitato dai differenti reati, e alle probabilità di successo dell’indagine. Nel nostro Paese, invece, un Pubblico Ministero può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno, invocando il vincolo dell’azione penale obbligatoria.
Un tale sistema si converte in un intollerabile arbitrio, perché conferisce alle iniziative individuali dei magistrati un’egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione e dall’uso anomalo dell’informazione di garanzia, già ricordato sopraIl risultato, certamente non voluto, è quello di un vero e proprio potere interdittivo in grado di bloccare qualsiasi iniziativa, anche la più virtuosa, in tutti i settori della società, attraverso l’autocensura preventiva che molti pubblici ufficiali, investiti di importanti cariche e responsabilità, si impongono a fini cautelativi.
Le storture della giustizia amministrativa e tributaria
Purtroppo la proposta correttiva della politica rispetto a queste distorsioni è stata di tutt’altro genere rispetto a quella che sarebbe stata necessaria: non la revisione di reati evanescenti come l’abuso d’ufficio, non la riforma dell’informazione di garanzia con la sua più corretta definizione, ma la complicazione del codice degli appalti, che ha reso le procedure più incerte di prima.
In questa situazione anche le competenze attribuite alla giustizia amministrativa e a quella tributaria sono congegnate in modo tale da rallentare, e spesso paralizzare, la necessaria evoluzione economica e civile del Paese. In particolare, il ricorso al giudice amministrativo è teoricamente un rimedio contro gli abusi dell’autorità, ma la sua formulazione rigida lo rende ormai applicabile a tutto, dalla bocciatura dello studente al trasferimento di un funzionario, dalla collocazione di una discarica alla costruzione di un’autostrada, di un aeroporto o di una centrale nucleare, con la conseguenza che ogni provvedimento amministrativo, per quanto necessario e urgente, è soggetto alla censura di un potere estraneo e politicamente irresponsabile, che ne vanifica ogni utilità. Cosicché mentre a Pechino si costruisce un ponte di tre chilometri in uno anno, da noi ce ne vogliono dieci per una campata di venti metri.
In tal modo, mentre il mondo corre, noi restiamo fermi.
La giustizia civile: la necessità della specializzazione e il nodo del processo di esecuzione
Le riforme del processo civile varate negli ultimi anni – ed anche quella proposta dall’attuale governo – sembrano tutte muovere dall’idea che per ridurre i tempi della giustizia – che sono uno dei nostri principali problemi, non solo per il danno economico ed umano che cagionano a chi aspetta di ottenere il riconoscimento dei propri diritti, ma anche perché allontanano gli investimenti stranieri nel nostro Paese, mentre il livello degli investimenti esteri è un indice fondamentale della reputazione positiva di un Paese, indispensabile per la sua crescita e per la sua competitività – basti modificare le regole del processo di cognizione: quest’idea è stata invece smentita sia dall’esperienza delle precedenti riforme, sia dai risultati che invece sono stati ottenuti in alcune sedi giudiziarie (abbiamo già ricordato Milano e Torino) senza ricorrere a nuove norme, ma semplicemente adottando e facendo rispettare con fermezza regolamenti organizzativi che competono ai capi degli uffici giudiziari. Censire e diffondere le best practices seguite in queste sedi, richiedendone e verificandone il rispetto in tutto il Paese è certamente il punto di partenza indispensabile per giungere a una più rapida definizione dei processi e incentivare il ricorso a procedure di ADR.
In secondo luogo bisogna trarre esempio dagli esempi di riforma che hanno davvero funzionato, in Italia e all’estero, ed anzitutto al ricorso alla specializzazione, che ha dato eccellente prova di sé in tutto il mondo e anche nel nostro paese, con le Sezioni Specializzate della Proprietà Industriale e Intellettuale, istituite nel 2003: un giudice particolarmente esperto di una materia è in grado di rendere decisioni giuste in meno tempo, garantendone anche la prevedibilità, che di per sé scoraggia le impugnazioni ingiustificate. Se poi alla specializzazione si accompagna il ricorso a regole procedurali che affianchino un rito sommario abbreviato a quello ordinario, rendendo quest’ultimo residuale e limitandone il ricorso sostanzialmente solo ai casi in cui è richiesta una pronuncia anche sui profili risarcitori o indennitari, come avviene appunto nel settore della proprietà intellettuale, l’effetto deflattivo del contenzioso ordinario e soprattutto delle impugnazioni può essere raggiunto pressoché in ogni settore.
Naturalmente questa strada va percorsa avendo chiaro l’obiettivo da raggiungere: è evidentemente contraddittorio istituire una specializzazione e in pari tempo mantenere la stortura – fondata su una “cultura del sospetto” irrispettosa del ruolo dei giudici – per cui dopo dieci anni di permanenza in un ruolo direttivo o semidirettivo i magistrati devono comunque ruotare, perché ciò significa che, proprio quando essi avranno acquisito davvero competenze specialistiche in una materia, le si disperde, costringendoli a “cambiare mestiere”.
Ancora più urgente è la riforma del processo di esecuzione, che oggi ammette una moltiplicazione di strumenti di impugnazione concorrenti, dilatando i tempi per il conseguimento di quanto dovuto (e talvolta consentendo al debitore di sottrarsi definitivamente al pagamento), tanto più che essi si accompagnano ad una prassi lassista nella concessione di dilazioni ingiustificate (ma consentite dalle norme vigenti).
Anche meccanismi analoghi a quelli vigenti all’estero, che subordinano a un leave da concedere caso per caso la possibilità di ricorso alle magistrature superiori (e in particolare alla Corte di Cassazione civile, il cui carico di lavoro oggi richiede in media tre anni di attesa) ridurrebbero i tempi di definizione del processo, specie nel contenzioso minore.
La necessaria evoluzione dell’avvocatura e degli ordini professionali
L’Italia è il terzo Paese europeo per concentrazione di avvocati: quasi 250.000, contro i 60.000 della Francia e i 160.000 della Germania, con una media per abitante che è più elevata nelle regioni meridionali (Calabria, Campania e Puglia), nonostante le aree economicamente più importanti del Paese siano quelle del centro-nord. Come in molti settori della nostra vita economica – dalle Camere di Commercio ai Consorzi Agrari, passando per strutture come la SIAE – la capacità delle professioni di adeguarsi al cambiamento, confrontandosi con le esigenze del mercato, nell’interesse tanto dei professionisti che degli utenti, trova un freno nella struttura tipicamente monopolistica degli Ordini e dei Collegi professionali e delle relative Casse previdenziali.
È invece proprio il monopolio che va messo in discussione, perché la concorrenza tra Ordini e Casse potrebbe consentire un’evoluzione della professione non “calata dall’alto”, ma creata e voluta dagli stessi professionisti e sottoposta al giudizio non della politica, ma del mercato.
In estrema sintesi: non si tratta qui di imporre un nuovo modello all’esercizio delle professioni che le omologhi a tutti gli altri servizi, ma al contrario di consentire a modelli diversi di contendersi sul mercato la potenziale clientela per ciò che tali diversi modelli concretamente sanno offrire e quindi per la capacità di adeguarsi al meglio, in una pluralità di forme diverse, alle esigenze, a loro volta diverse e mutevoli, di un mercato che cambia e più in generale del mondo della vita. Solo questo potrà garantire un futuro alle professioni forensi in un mondo sempre più globalizzato e competitivo, offrendo ad esse la capacità di rimanere elemento decisivo nel rilancio e nella crescita del sistema sociale ed economico dell’Italia.
Alcune indicazioni operative
Queste dolorose riflessioni su una giustizia che da noi è diventata più un ostacolo che una garanzia sarebbero incomplete se non si concludessero con l’indicazione di una terapia.
E quest’ultima non può che prevedere anzitutto una profonda revisione di quell’ordinamento costituzionale che ha reso possibile questa inaccettabile confusione di ruoli: il sistema processuale accusatorio, oggi giustamente previsto dall’ art. 111 Cost., è infatti incompatibile con la composizione del CSM e l’obbligatorietà dell’azione penale, contemplate dagli articoli precedenti, ma è incompatibile anche con se stesso, là dove consente che l’imputato possa ricorrere per Cassazione contro la sentenza di patteggiamento che lui stesso ha chiesto e ottenuto e soprattutto là dove, equiparando giudici e pubblici ministeri, ed estendendo a questi ultimi le guarentigie dei primi, consente quelle intrusioni incontrollabili, e spesso arbitrarie, che abbiamo provato a riassumere.
Queste conseguenze nefaste derivano anche dall’incompatibilità tra le regole rigide e la flessibilità normativa richiesta dalle frenetiche trasformazioni di un mondo ormai globalizzato; e soprattutto di una giustizia che da noi è diventato più un ostacolo che una garanzia.
A tal fine, un percorso fattibile deve prevedere anzitutto:
- L’eliminazione della riforma della prescrizione, così come introdotta dalla Legge 9 gennaio 2019, n. 3
- L’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, stabilendo in sua vece criteri oggettivi, da fissare periodicamente, che indirizzino l’attività verso la repressione dei reati in grado di suscitare maggiore allarme sociale e tengano conto delle probabilità di successo dell’indagine
- L’abolizione del reato di abuso d’ufficio, il cui contenuto evanescente ne fa un ostacolo all’attività amministrativa senza alcuna utilità sostanziale
- Il ripristino dell’art. 68 della Costituzione nella sua versione originaria, che prevedeva l’autorizzazione a procedere, anche in sede d’indagini, non solo per le azioni lesive delle libertà personali (arresto,perquisizioni, intercettazioni) e di rinvio a giudizio, per i membri dei corpi legislativi, a tutela della separazione dei poteri
- La previsione della responsabilità disciplinare dei magistrati anche in relazione alla loro interpretazione delle norme e alla loro valutazione delle prove, quando ciò sia avvenuto con dolo o colpa grave e abbia determinato una ingiusta detenzione o un’ingiusta imputazione
- L’inserimento di una norma che imponga il risarcimento, o quanto meno la rifusione integrale delle spese di difesa, non solo per l’ingiusta detenzione, ma anche per l’ingiusta imputazione, come è già oggi previsto in numerose legislazioni europee ed extra-europee
- La previsione della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, dividendo anche i relativi organi di autogoverno e differenziando le garanzie spettanti ai suoi componenti, prevedendo in ogni caso l’esclusione dal ruolo per chi si renda responsabile di errori evitabili
- Il divieto per i magistrati di svolgere attività politica anche dopo che hanno lasciato la magistratura
- La revisione dei sistemi di impugnazione, in modo da renderli compatibili col principio costituzionale del giusto processo e subordinando a un filtro preventivo (leave) il ricorso alle magistrature superiori
- La previsione per tutte le materie più importanti per l’impatto sull’economia e sulla vita dei cittadini di sezioni specializzate (in tutti i gradi di giudizio e anche a livello inquirente), concentrandole in un numero il più possibile ridotto di sedi giudiziarie (non necessariamente le stesse per tutte le specializzazioni), escludendo i magistrati che ne fanno parte dalla regola della rotazione, o prevedendola anche nell’ambito della stessa specializzazione, in modo di non disperdere il patrimonio di esperienza dei giudici
- La previsione di un rito sommario, sul modello del rito cautelare speciale industrialistico, che disincentivi il ricorso al processo ordinario di cognizione in tutti i casi in cui non vi sia la necessità di provvedere in materia risarcitoria
- La riforma del processo civile di esecuzione, concentrando in unico giudizio tutte le possibili opposizioni e riducendo la discrezionalità nella concessione di dilazioni nel pagamento di quanto dovuto
- La liberalizzazione degli ordini professionali e delle casse previdenziali, cancellando l’obbligatorietà dell’iscrizione, o meglio consentendo l’iscrizione, a scelta del professionista, agli ordini esistenti o ad altri in concorrenza con i primi, monoprofessionali o pluriprofessionali, lasciando al legislatore solo la previsione di standard minimi per l’esercizio delle professioni (e per gli statuti dei nuovi ordini e delle casse di previdenza che dovessero sorgere), dei meccanismi di controllo esterno ad opera di autorità indipendenti e degli obblighi di comunicazione al pubblico, in modo da dare al sistema la massima trasparenza, lasciando per il resto ai professionisti la possibilità di darsi regole diverse da quelle esistenti e anche più severe (per esempio, in termini di formazione o di specializzazione) e al mercato la selezione tra migliori e peggiori, come del resto già oggi avviene, ma in condizioni di molto minore efficienza e trasparenza
In pari tempo è necessario un cambiamento culturale: una politica della giustizia veramente moderna dovrebbe rinunziare alle aspirazioni escatologiche e contentarsi di mitigare, con la ragione e la pietas, le contraddizioni di questo mondo imperfetto, con la flessibilità normativa richiesta dalle frenetiche trasformazioni di un mondo ormai globalizzato.
Hai trovato interessante questo articolo? Scarica la versione digitale