Considerazioni sulle criticità della giustizia

CONSIDERAZIONI SULLE CRITICITÀ DELLA GIUSTIZIA

di Carlo Nordio

Rapporto tra magistratura e politica

In Italia il rapporto tra Magistratura e Politica è stato, negli ultimi venticinque anni, anomalo e patologico. In uno Stato democratico che, come tutti gli ordinamenti moderni, si fondi sul principio della divisione dei poteri, questa conflittualità dovrebbe essere esclusa in radice. In realtà, le interferenze tra le due istituzioni si sono rivelate più estese e frequenti di quanto Montesquieu potesse prevedere, e quasi tutti i paesi ne sono stati contaminati. Questa sorta di sovrapposizione, ormai accettata di fatto in Europa e negli Stati Uniti, è però limitata a settori definiti, nel senso che la pronunzia – o l’indagine – del magistrato può travolgere provvedimenti specifici adottati in sede politica, o può addirittura sostituirsi all’inerzia o alle contraddizioni del legislatore. Basti pensare alle sentenze delle corti inglesi e statunitensi sul diritto al fine vita, quando ancora quegli ordinamenti non ne prevedevano la disciplina.

In Italia, tuttavia, si è andati ben oltre. Qui la Giustizia non si è limitata a colmare vuoti normativi, o a chiarirne le incertezze, ma ha interferito persino nei due momenti più significativi della dialettica democratica: l’elezione dei rappresentanti del popolo e la formazione delle leggi.

Ma il prezzo pagato è stato alto: un’ubriacatura giustizialista che a tratti avvilì i più elementari diritti civili. Basti pensare alle centinaia di persone incarcerate e assolte, e a quelle ancor più numerose delegittimate da una sapiente divulgazione di intercettazioni e di atti teoricamente coperti dal segreto. Berlusconi ne fu la prima vittima, con la notifica a mezzo stampa di un’informazione di garanzia che ne compromise, o ne vulnerò, l’esordio politico. In secondo luogo, la funesta illusione che la magistratura fosse investita di una missione salvifica, tale da attribuirle la certificazione monopolistica di moralità politica ai vari candidati. Infine, più importante ed attuale, il cosiddetto populismo. I cinque partiti che avevano presieduto alla ricostruzione dell’Italia del dopoguerra si erano dissolti; il partito comunista, già travolto dal crollo del muro, credette di rilegittimarsi nella creazione affrettata e acritica di  una eterogenea coalizione unita da una effimera e arbitraria asseverazione di onestà; peraltro presto smentita dalle inchieste successive che rivelarono come quel  partito si fosse finanziato in modo improprio come tutti gli altri, oltre a ricevere sussidi da un paese ostile. Delusi e disillusi, gli elettori si sono rivolti ad altre formazioni, peraltro prive di tradizioni, consistenza e cultura politiche.

In questo vuoto di potere, che dura da venticinque anni, si è inserita la magistratura, con una involontaria ma inevitabile funzione di supplenza. Questa può riassumersi in vari momenti.

Il primo, è quello connesso alla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale.

ll nostro processo alla Perry Mason, come generalmente viene chiamato, ha in realtà poco a che vedere con quello accusatorio anglosassone, che si regge su alcuni solidi principi, come la divisione delle carriere, la distinzione tra giudice del fatto e del diritto e, più importante di tutti, la discrezionalità dell’azione penale. Una discrezionalità tuttavia vincolata a criteri oggettivi, che il “District Attorney” è tenuto a rispettare in base al concreto allarme sociale suscitato dai differenti reati, e alle probabilità di successo dell’indagine. Un criterio pragmatico, coerente con la natura elettiva del “Prosecutor”, che viene, appunto, nominato dai cittadini. In Italia, al contrario, l’obbligatorietà è imposta dalla Costituzione, ed esprime il dovere del magistrato di procedere ogniqualvolta venga a conoscenza di un reato, garantendo – si dice – l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Di fatto, invece, si è convertita in un intollerabile arbitrio.

Nella gestione di migliaia di fascicoli il pubblico ministero non è in grado, per carenza di risorse, di occuparsene integralmente, e quindi è costretto a una scelta; non solo, ma può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno. Questo magistrato, beninteso nella più perfetta buona fede, disporrà intercettazioni telefoniche e ambientali, nominerà consulenti, sguinzaglierà investigatori, spedirà avvisi di garanzia, provocherà dibattimenti lunghi e costosi per gli imputati e i contribuenti e alla fine,di fronte alla sentenza che il fatto non sussiste , invocherà il vincolo dell’azione penale obbligatoria. Un tale sistema conferisce alle iniziative – e talvolta alle ambizioni – individuali dei magistrati un’egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione. Come capo della polizia giudiziaria, il PM ha infatti una reale autorità esecutiva. Ma come magistrato gode delle garanzie dei giudici, e quindi è svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia, accompagnano e limitano l’esercizio di un potere. Finchè queste indagini coinvolgono privati cittadini le conseguenze si riverberano – sia pur con effetti dolorosi – nella sfera individuale. Ma quando hanno ad oggetto personaggi politici, o persino “fenomeni” politici, allora condizionano l’intero assetto istituzionale nel paese. Questo purtroppo è accaduto dopo il ‘93, quando molte indagini, rivelatesi successivamente infondate, hanno determinato la caduta di governi e di ministri, di sindaci e di assessori, ed hanno precluso le candidature a cariche parlamentari o amministrative.

Il secondo momento: l’uso anomalo dell’informazione di garanzia.

L’informazione di garanzia, come si sa, è un atto dovuto, finalizzato a tutelare le prerogative difensive dell’indagato. Esso è dunque penalmente neutro e, in ossequio al principio della presunzione di innocenza, non dovrebbe compromettere né le funzioni presenti né le aspirazioni future di chi lo riceve. Invece, per una combinazione perversa di cointeressenze politiche e di sapiente martellamento mediatico si è trasformato in condanna anticipata, o comunque in uno strumento di ibernazione del destinatario, al quale viene chiesto il famoso “passo di lato” in attesa del chiarimento finale. Chiarimento futuro e incerto che, visti i tempi biblici della nostra giustizia, diventa spesso epurazione definitiva. Questa pretesa di sospensione interinale raramente è stata formulata dai magistrati, che peraltro hanno l’obbligo di spedire l’informazione di garanzia una volta iscritto l’indagato nell’apposito registro. Tuttavia costituisce, di fatto, una pesantissima ipoteca della Giustizia sulla dialettica politica. Incidentalmente, va detto che costituisce una fonte di disagio anche per il magistrato, che vede il suo provvedimento strumentalizzato a fini impropri.

Questo oggettivo condizionamento è stato aggravato dal venir meno della immunità parlamentare soppressa nel 1993, in piena tangentopoli, quando la politica fu investita da una bufera giudiziaria che invece di farla riflettere la fece dissolvere. Fu una “degringolade” improvvisa e inattesa, motivata dalla frenesia emotiva di una catarsi palingenetica, che ispirò alle menti più deboli l’idea suicida di una espiatoria rassegnazione. I parlamentari rinunciarono alle proprie immunità senza domandarsi nemmeno se ne avessero avuto il diritto. Se cioè quelle immunità fossero state concesse, come i beni indisponibili, non a favore delle loro rispettabili persone, ma a tutela della volontà popolare di cui erano espressione. Volontà che meritava di essere garantita anche contro le inchieste di un motivato procuratore Oggi la realtà presenta il conto salato. Finita la questione berlusconiana, dove si affrontavano le due tesi che alcuni magistrati imbastissero processi per eliminare il primo ministro, e che quest’ultimo si inventasse le leggi per fermare i processi, siamo arrivati alla più estrema e sciagurata conclusione che il rappresentante del popolo, quando è oggetto di un’indagine, debba rinunciare alla presunzione di innocenza e accantonare la carica. Così la democrazia vive, malamente, in una condizione di perenne e reciproco sospetto di interferenze anomale tra i suoi poteri, e quantomeno di una loro strumentalizzazione faziosa. Proprio come avevano temuto i padri della nostra Costituzione che avevano introdotto l’immunità parlamentare.

Il terzo punto riguarda la produzione delle leggi.

 In linea teorica questo compito spetterebbe al Parlamento sovrano. Non ha alcuna importanza che esso sia ispirato da interessi di varia natura: la democrazia conosce questi rischi e li accetta. Né costituisce scandalo che i magistrati, proprio perché incaricati di applicarle, evidenzino criticità tecniche di alcune norme e ne suggeriscano modifiche. Fin qui siamo nella normalità. Ciò che invece è anomalo è l’intervento, talvolta vigoroso e persino arrogante, del sindacato dei magistrati, o di qualcuno di loro, nel “merito politico” di provvedimenti in discussione. L’esempio più clamoroso si ebbe nel ‘94 quando, davanti alla prospettiva del c. d. decreto Biondi, peraltro di modesto impatto effettivo, i PM del pool di Milano minacciarono, in un accorato appello televisivo, di mollare le indagini se la legge fosse stata promulgata. A questa singolare iniziativa, peraltro, la politica rispose nel modo peggiore, lamentando la illegittimità del “pronunciamiento”, ma ritirando il decreto. Avrebbe dovuto fare il contrario: mantenere quest’ultimo, e assecondare le intenzioni dei gagliardi PM augurando loro buona fortuna. La colpa della politica, che rivelò così la sua debolezza e la sua arrendevole subalternità, fu enorme. Ma resta il fatto che l’interferenza delle toghe rimase, e, quel che è peggio, ne trasse una sorta di giustificazione e di incoraggiamento.

 Infine, la paralisi amministrativa conseguente non solo alla presenza di un’indagine, ma addirittura al timore del suo inizio.

I processi e le sentenze sui vari episodi corruttivi hanno dolorosamente dimostrato l’estensione e l’intensità di questo fenomeno pernicioso, che offende la legalità, umilia la concorrenza, aumenta i costi e gli sprechi, e si insinua in modo tentacolare persino tra gli organi di controllo che dovrebbero impedirlo e combatterlo. Purtroppo i rimedi si sono spesso rivelati inutili, o persino peggiori del male. Da quando, nel 2012, si è inteso voltar pagina rispetto al cosiddetto lassismo del centrodestra, i provvedimenti anticorruzione si sono succeduti con periodica e minuziosa bigotteria ammonitoria, nel senso che ad ogni legge si attribuiva un intento insieme etico e risolutivo. Abbiamo così avuto un primo aumento di pene; poi la creazione di nuovi reati, come la concussione per induzione e il traffico di influenze illecite: due fattispecie vaghe e proteiformi, criticate e spesso derise negli ambienti universitari, che già si pensa di modificare. Poi la legge Severino, che, applicata retroattivamente, è una manifesta iniquità, trattandosi, quale ne sia la natura, di un provvedimento afflittivo. E via con altri giri di vite, che hanno ulteriormente devastato il nostro già pericolante edifico penale. Anche l’istituzione dell’ANAC si è rivelata deludente. Benchè affidata a Raffaele Cantone magistrato esperto, preparato, e dotato di solido buon senso, non ha raggiunto i suoi scopi.

Il fatto è che la statistica dimostra che le probabilità di essere indagati aumentano in modo esponenziale per chi esercita cariche pubbliche. Anche qui, non crediamo che si tratti di un disegno della magistratura volto a condizionare l’attività politica o amministrativa dello Stato; nondimeno il condizionamento rimane. Esso dipende dalla sciagurata combinazione della già citata “obbligatorietà” dell’azione penale con reati così generici e onnicomprensivi da autorizzare un’indagine contro qualsiasi sindaco, assessore o ministro. Il presidente Cantone è stato tra i primi a darne l’allarme:” Molti amministratori – ha detto – sono effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta.”  Orbene, poiché la stragrande maggioranza delle inchieste si conclude con archiviazioni e proscioglimenti, questi timori dovrebbero essere infondati. Orbene, questi sindaci, assessori ecc. non temono affatto la galera, che sanno benissimo non arriverà mai per quelle incolpazioni generiche e spesso strampalate.  Temono (oltre alle spese degli avvocati) la bagarre mediatica che si concluderà nell’inevitabile richiesta di rimozione temporanea, e quindi di estromissione definitiva. Ecco perché si rifugiano in una prudente inerzia attendista.

Purtroppo la proposta correttiva della politica è stata di tutt’altro genere: non la revisione totale di questi reati evanescenti, non la riforma dell’informazione di garanzia con la sua più corretta definizione, ma la complicazione del codice degli appalti, che ha reso le procedure più incerte di prima.

I rapporti impropri tra Giustizia e Politica non finiscono naturalmente qui: potremmo aggiungere l’ingresso dei magistrati nelle competizioni elettorali, talvolta aspirando ai posti lasciati liberi dai loro inquisiti;  le esternazioni improprie di pubblici ministeri e persino di giudici; l’intrusione dell’Associazione Nazionale Magistrati in materie estranee alle proprie competenze, e più in generale l’attitudine della stessa politica a rivolgersi alle toghe come organo consultivo sui complessi problemi presentati  dalla modernità: l’ambiente, l’informatica, via via fino al testamento biologico e alla fecondazione assistita.

Il potere interdittivo

Si tratta di un residuo di quella abdicazione penitenziale, citata all’inizio e risalente al tempo delle BR, anche se non le è estranea una sorta di “captatio benevolentiae” verso una corporazione potente e temuta. Se tuttavia, alla fine di questa breve e incompleta analisi, dovessimo compendiare in una formula questa complessa patologia, useremmo una semplice espressione: potere interdittivo.

Nel nostro Paese il potere interdittivo è, da molti anni a questa parte, l’unico potere realmente efficace e durevole. A dispetto dei cambiamenti dei governi e delle maggioranze parlamentari, esso è solidamente radicato nelle istituzioni che sono in grado di bloccare qualsiasi iniziativa, anche la più virtuosa, in tutti i settori della società. E il primato di questo potere spetta proprio alla Giustizia: non solo penale, ma civile e amministrativa. E non solo con i provvedimenti diretti: sequestri, sospensive, ingiunzioni ecc; ma anche con quelli indiretti, attraverso l’autocensura preventiva che molti pubblici ufficiali, investiti di importanti cariche e responsabilità, si impongono a fini cautelativi. Con la conseguenza, paradossale quanto significativa, che spesso, prima di approvare risoluzioni o assegnazioni di appalti, si chiedono alle Procure della Repubblica dei consigli, o addirittura dei “placet”sul contenuto degli  atti e dei contratti, inviati al Pm in bozza, e naturalmente rispediti al mittente senza commento.

Queste dolorose riflessioni sarebbero tuttavia incomplete se non si concludessero con l’indicazione di una terapia. E quest’ultima non può che prevedere una profonda revisione di quell’ordinamento costituzionale che ha reso possibile questa inaccettabile confusione di ruoli.

Come tutte le cose terrene, anche le Costituzioni sono destinate, dopo un’adolescenza entusiasta, alla maturazione, alla decadenza e alla fine. Non c’è dunque nessun reato di lesa maestà, nessuna polemica revisionista, nessuna nostalgia autoritaria, nel sostenere che la nostra Costituzione è venerabile ma irreversibilmente malata, meritevole di una sepoltura onorata e pacifica. Onorata, perché ha servito il Paese con dignità, risollevandolo moralmente e politicamente dai disastri della dittatura e della guerra, E pacifica, perché, per nostra fortuna, essa può avvenire senza i traumi che generalmente accompagnano le grandi transizioni istituzionali. La nostra Costituzione è vecchia culturalmente perché poggia sul compromesso di due ideologie – la comunista e la cattolica – che hanno subìto, in questi ultimi decenni, profonde trasformazioni. La prima è scomparsa, e la seconda si è secolarizzata. Una Costituzione moderna dovrebbe rinunziare alle aspirazioni escatologiche e contentarsi di mitigare, con la ragione e la pietas, le contraddizioni di questo mondo imperfetto.

Ma l’inattualità culturale della Costituzione non si esaurisce in sé stessa, come un evanescente riflesso speculativo. Essa ha profonde conseguenze   pratiche che rallentano, e spesso paralizzano, la necessaria evoluzione economica e civile. Queste conseguenze derivano dall’incompatibilità tra le sue regole rigide e la flessibilità normativa richiesta dalle frenetiche trasformazioni di un mondo ormai omogeneizzato; e soprattutto di una giustizia che da noi è diventato più un ostacolo che una garanzia. Per fare un esempio, il ricorso al giudice amministrativo previsto dall’art 24, è teoricamente un rimedio contro gli abusi dell’autorità. Ma la sua formulazione rigida lo rende ormai applicabile a tutto, dalla bocciatura dello studente al trasferimento di un funzionario, dalla collocazione di una discarica alla costruzione di un’autostrada, di un aeroporto o di una centrale nucleare. Con la conseguenza che ogni provvedimento amministrativo, per quanto necessario e urgente, è soggetto alla censura di un potere estraneo e politicamente irresponsabile, che ne vanifica ogni utilità. Cosicché mentre a Pechino si costruisce un ponte di tre chilometri in uno anno, da noi ce ne vogliono dieci per una campata di venti metri. Mentre il mondo corre, noi restiamo fermi. Non solo. In molti casi la Costituzione contraddice sé stessa, perché alcune recenti riforme sono state inserite senza un organico coordinamento. Così il sistema processuale accusatorio, previsto dall’ art 111, è incompatibile con la composizione del Csm e l’obbligatorietà dell’azione penale, contemplate dagli articoli precedenti. Ma è incompatibile anche con sé stesso, laddove consente che l’imputato possa ricorrere per Cassazione contro la sentenza di patteggiamento che lui stesso ha chiesto e ottenuto. Infine, equiparando giudici e pubblici ministeri, ed estendendo a questi ultimi le guarentigie dei primi, consente quelle intrusioni incontrollabili, e spesso arbitrarie, che abbiamo provato a riassumere. Nella concezione della Giustizia, la nostra Costituzione non è liberale: non è un caso che mantenga bene in vita un codice penale firmato da Benito Mussolini e da Vittorio Emanuele III, mentre ne è stata certificata più volte l’incompatibilità con il codice di procedura penale, firmato da Giuliano Vassalli, decorato della Resistenza. E senza una Costituzione liberale i princìpi di Montesquieu continueranno ad essere, come sono, umiliati ed offesi.

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